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Streghe in Sicilia

Gli "autos da fè" in Sicilia nei secoli XV-XVIII

Espressione spagnola che significa "atto di fede". Gli autos da fé erano grandiose cerimonie pubbliche, nel corso delle quali l’Inquisizione notificava agli imputati le sentenze, che poi venivano eseguite sul posto. Nei bandi, che portavano a conoscenza della popolazione la data dell’"atto di fede", si prometteva che "tutti quilli chi asistiranno a la dicta predica et solepne Acto guadagneranno le indulgencie" e si minacciava "excomunicatione maiore" a chiunque tentasse di dare aiuto ai condannati. La presenza agli "atti di fede" era obbligatoria come alla messa domenicale per "fidelli christiani […] di etate de anni dudici in suso".tutti Agli atti generali di fede, nel corso dei quali si pronunciavano decine di condanne, presenziavano le autorità e la nobiltà con in testa il viceré, il clero cittadino regolare e secolare con in testa l’arcivescovo, e una grande moltitudine di popolo. Tutta questa gente sfilava in lunghissima processione dal fosco palazzo Steri, sede dell’Inquisizione, al luogo dove si sarebbe svolto l’auto da fé.

Non c’era un posto fisso per il loro svolgimento, ma, a seconda delle circostanze, avevano luogo nei numerosi slarghi cittadini capaci di accogliere folle di spettatori. Se ne eseguirono nel piano della Marina, in quello dei Bologni, dell’Ucciardone, nella piazza della Vucciria Vecchia, nel piano della Loggia e in quello di S. Domenico.

I poveri disgraziati che subivano l’"atto di fede" erano detti penitenziati. I riconciliati, cioè coloro che avevano dichiarato di essere pronti ad abiurare alle loro eresie e a riconciliarsi con la Chiesa, scontando la pena a cui il Tribunale del S. Ufficio li avrebbe condannati, si presentavano indossando un saio giallo, chiamato sambenito, che ben presto divenne simbolo di vergogna sociale e di emarginazione non soltanto per chi lo indossava, ma anche per le famiglie dei condannati. Gli imputati, nel corso della cerimonia, dopo aver ascoltato la lettura dell’atto di accusa, abiuravano: de levi se erano stati soltanto in sospetto di eresia; de vehementi se la loro eresia era stata accertata. Indi, subivano le pene comminate loro, a cui si accompagnava sempre la confisca dei beni a beneficio dell’Inquisizione. In genere, i riconciliati venivano sottoposti alla frusta del boia per un certo numero di cazzottate (frustate), che andavano da una decina ad oltre duecento. Dopodiché si avviavano a scontare la pena, che poteva consistere in un certo numero di anni di disterro, cioè di esilio dal proprio paese, o di lavori forzati al remo delle galee o in lunghi anni di triste detenzione nelle segrete di qualche carcere ecclesiastico.
Diversa era la sorte di chi non abiurava alle proprie convinzioni. Costoro, dichiarati ostinati e pertinaci, venivano rilasciati al braccio secolare della giustizia – dato che la santa Chiesa non uccide nessuno – per essere bruciati sul rogo. La stessa sorte toccava a chi, riconciliato in un "atto di fede", ricadeva poi negli stessi errori. Dichiarato relapso, veniva bruciato immancabilmente. Se si era pentito, gli si faceva la grazia di strozzarlo prima di essere bruciato.
Anche i morti venivano bruciati. Per accusa di eresia, l’Inquisizione faceva riesumare i cadaveri per bruciarli pubblicamente (l’anticipazione della odierna "cremazione"). I contumaci, invece, venivano bruciati in statua. In attesa di poterli bruciare in carne ed ossa, si poneva sul rogo un simulacro di cartapesta. Durante la sua lunga attività, dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento, l’Inquisizione organizzò centinaia di autos da fé, tutti di inaudita crudeltà. Alcuni di essi, per la qualità dei condannati e per la grandiosità del cerimoniale, restarono fissati nei diari dei contemporanei e in pubblicazioni a stampa. Il più famoso è certamente l’auto da fé tenutosi il 6 aprile 1724, in cui, tra altri ventisei penitenti condannati a pene varie, furono bruciati vivi fra Romualdo e suor Geltrude. Il primo, a parere di molti, era poco sano di mente e mormorava a se stesso: "Fra Romualdo sta’ fermo"; l’altra era una povera suora che diceva agli inquisitori: "Io son donna, voi siete teologi; non posso mettermi a contendere con voi".
Nel 1790, il mai troppo apprezzato viceré, marchese Domenico Caracciolo, aboliva il feroce tribunale dell’Inquisizione, nemico dell’umanità, della tolleranza e del cristianesimo. Purtroppo, i siciliani dimostrarono di essere diseducati ad apprezzare questi valori. Agli atti della storia restano per sempre due terribili documenti: la "Supplica del Senato di Palermo perché il Re non permetta di abolire l’Inquisizione" e la "Supplica della Deputazione del Regno a S.M. per non abolirsi il Tribunale del S. Offizio". La Deputazione del Regno era la massima espressione del Parlamento siciliano. Rappresentava, o avrebbe dovuto rappresentare, tutti i siciliani.

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